sabato 19 marzo 2011

L' Organizzazione Mondiale del Commercio (W.T.O.)


Chi detta le regole che gestiscono il commercio internazionale dei beni e servizi prodotti e consumati sul nostro Pianeta?



Tratto da pag. 138-145 de " La Via del Denaro "


L’Organizzazione Mondiale del Commercio, OMC (meglio conosciuta come World Trade Organization, WTO in inglese) è un’organizzazione internazionale delle Nazioni Unite, con sede a Ginevra, creata allo scopo di supervisionare numerosi accordi internazionali relativi al commercio tra i 150 stati membri.

Il WTO è stato istituito nel 1995, alla conclusione dell’Uruguay Round, i negoziati che tra il 1986 e il 1994 hanno impegnato i paesi aderenti al GATT ed i cui risultati sono stati sanciti nell’“Accordo di Marrakech” del 15 aprile 1994.

Il WTO ha assunto, nell’ambito della regolamentazione del commercio mondiale, il ruolo precedentemente detenuto dal GATT: di quest’ultimo ha infatti recepito gli accordi e le convenzioni adottati con l’incarico di amministrarli ed estenderli.

Obiettivo generale del WTO è quello dell’abolizione o della riduzione delle barriere tariffarie al commercio internazionale; a differenza di quanto avveniva in ambito GATT, oggetto della normativa del WTO sono, però,non solo i prodotti dell’agricoltura ( Agreement on agriculture – AoA), bensì anche i prodotti industriali ( Non agricultural market access – NAMA), i servizi (General agreement on trade in services – GATS), i brevetti e la proprietà intellettuale (Trade-related aspects of intellectual property rights – TRIPS).

Tutti questi accordi si basano su alcuni principi di fondo.

Tra questi ricordiamo in primo luogo il Single Undertaking, letteralmente presa unica, in base al quale un paese membro della Wto si impegna a sottoscrivere e rispettare tutti gli accordi che compongono la stessa Wto. Questo principio è particolarmente svantaggioso per i paesi più poveri, che basano spesso le loro economie sull’esportazione di poche (talvolta solo una o due) materie prime o prodotti agricoli. Per poter esportare questi prodotti cercando di evitare dazi e tariffe, questi paesi si trovano costretti ad aderire alla Wto.

In base al principio del Single Undertaking devono però accettare di partecipare a tutti gli altri negoziati, nei quali non hanno alcun interesse verso una maggiore liberalizzazione, che li priva progressivamente della loro libertà di decidere e della loro sovranità nazionale. Molto spesso i paesi più poveri si trovano quindi costretti ad una mera posizione difensiva in quasi tutti i negoziati, nei quali a dettare l’agenda sono i giganti occidentali e le loro imprese multinazionali.

Un secondo principio fondamentale della Wto è quello denominato Most Favoured Nation, secondo cui ogni membro della Wto deve essere considerato da tutti gli altri alla stregua della nazione più favorita. Se un paese accorda un qualche trattamento commerciale particolare ad un altro paese membro, allora le stesse condizioni devono automaticamente valere per tutti gli altri paesi. Questo in pratica significa che nella Wto è molto difficile accordare delle clausole particolari per i paesi più poveri, ad esempio stabilire un canale preferenziale per favorire alcune esportazioni di assoluta importanza per le loro economie.

Un ulteriore principio che sfavorisce pesantemente i paesi più deboli è quello denominato National Treatment, o trattamento nazionale. In base al National Treatment un paese non può trattare un’impresa estera meno bene di una nazionale. Questa seconda clausola rende quindi praticamente impossibile per gli stati membri accordare una qualche preferenza alle proprie imprese, anche se queste operano in settori cruciali per lo sviluppo del paese stesso o sono sottoposte ad una dura concorrenza dalle multinazionali straniere.

Un governo che decidesse di aiutare una propria compagnia nascente in un settore chiave per l’economia o lo sviluppo del paese potrebbe essere accusato di violare i principi del libero commercio, secondo il quale a decidere sono solo il mercato e la concorrenza.

Come quindi avviene per il FMI anche per il WTO le critiche non mancano.

L’Unicef ha notificato che ogni anno muoiono per fame 5,6 milioni di bambini. Secondo la FAO (Food and Agricultural Organization) sono circa due miliardi gli esseri umani che soffrono la fame. Muoiono perché l’economia dei loro paesi è nelle mani dell’élite ricca occidentale, che attraverso le Corporation attua politiche economiche attente soltanto a produrre profitti. Centinaia di milioni di persone soffrono la fame perché gran parte del terreno arabile viene oggi utilizzato per la coltivazione di cereali ad uso zootecnico piuttosto che per cereali destinati all’alimentazione umana.

La FAO ha più volte fatto appello ai governi dei paesi in via di sviluppo per indurli ad abbandonare le politiche agricole imposte dal FMI e dal WTO, che per il popolo equivalgono alla morte.

Assumere il controllo mondiale del cibo equivale ad acquisire un potere immenso di vita e di morte. Le Corporation che controllano il mercato delle varietà vegetali stanno sperimentando il modo di sostituire le varietà naturali con ibridi elaborati su princìpi chimici. La Fondazione Rockefeller è riuscita ad appropriarsi del 95% delle più comuni coltivazioni di cereali, e punta a rendere il settore sempre meno variegato e sempre più ibridato. Queste stesse persone, avendo anche il controllo della ricerca scientifica, impediscono che vengano fatti studi approfonditi sugli Ogm. Oggi il 90% del commercio di prodotti alimentari è nelle mani di pochissime transnazionali: Nestlé, Unilever, Monsanto, Cargill, Archer Daniel Midlands, Procter & Gamble e Kraft/Philip Morris. Gli interessi di queste Corporation sono protetti ed estesi grazie anche al WTO che non è altro che un ente privato che non rispetta le leggi internazionali, e possiede propri giudici e avvocati. I suoi giudici decidono del commercio internazionale, e spesso sono gli stessi avvocati delle Corporation.

La Wto detiene anche il potere giudiziario atto a fare applicare gli accordi e di comminare pesanti sanzioni economiche e commerciali a chi non li rispetta, distinguendosi in questo dalle Nazioni Unite e dalle sue agenzie, se si eccettua il Consiglio di Sicurezza.

Quando uno stato reputa che un altro paese abbia una legge o una norma che limita gli accordi di libero scambio della Wto e che lo danneggia, può chiedere a questo paese di abrogare quella norma. Se il secondo paese si rifiuta, il primo può rivolgersi all’Organo di Risoluzione delle Dispute, o Dispute Settlement Body (DSB), sorta di tribunale interno alla Wto. Il DSB è composto da tre o cinque membri nominati direttamente dalla stessa Wto e da esperti di questioni commerciali ed economiche, che si riuniscono a porte chiuse per dirimere le controversie tra paesi.

Oltre alla grave mancanza di democrazia e trasparenza di questo procedimento e al fatto che in diverse situazioni questi esperti di commercio sono stati chiamati a decidere su tematiche che riguardavano in primo luogo la tutela dell’ambiente o il rispetto di diritti sociali fondamentali, ancora una volta sono i paesi più poveri a essere maggiormente penalizzati. Il ricorso al DSB, infatti, necessita di grandi risorse economiche e di competenze tecniche in materia legislativa e giuridica.

Mentre le grandi potenze occidentali hanno a disposizione decine di specialisti che lavorano a tempo pieno su queste tematiche e possono permettersi di sostenere alti costi, la situazione è completamente diversa per i piccoli paesi, che sovente alla Wto hanno un solo rappresentante che deve seguire l’insieme dei negoziati, e che non potrebbero assolutamente sostenere il costo di un processo e dell’eventuale appello.

Per questo motivo i casi che arrivano al DSB sono relativamente pochi. Spesso è sufficiente la minaccia di intentare un’azione da parte di una potenza economica, perché un paese del Sud particolarmente povero decida di modificare la propria legislazione pur di evitare di incorrere in sanzioni o di dover sostenere i costi del processo, anche se la legislazione era stata promossa nell’interesse dei propri cittadini o dell’economia nazionale. Considerando inoltre i rapporti di sudditanza legati al fardello del debito estero che tuttora strangola questi stessi paesi e la dipendenza dagli aiuti internazionali, è molto difficile, per non dire impossibile, che una piccola realtà del Sud del mondo osi portare avanti una causa commerciale contro un paese ricco.

Il Wto si impone come organizzazione a cui ogni paese deve aderire se vuole far parte del mercato internazionale, quindi, nonostante i rischi, vi hanno aderito 150 paesi, che devono accettare le regole a favore delle Corporation.

Per fare un esempio, l’UE da anni paga 130 milioni di euro l’anno per poter rifiutare i vitelli americani, ingrassati con l’ormone della crescita e alcuni prodotti Ogm. I giudici hanno deciso che il torto era della Ue, nonostante si trattasse di tutelare la salute dei cittadini europei. Un altro esempio è quello dei farmaci indiani: il governo indiano forniva farmaci a basso costo ai poveri del mondo, ma a causa delle regole del Wto non può più farlo. I farmaci indiani erano simili a quelli già brevettati dalle grandi case farmaceutiche (esempio la Novartis), e in ottemperanza al principio secondo cui non è possibile la vendita di medicine a prezzi più bassi di quelli delle transnazionali, non sarà più possibile salvare la vita di quei poveri che non possono pagare i farmaci a prezzi alti.

A dispetto di tutto ciò, il WTO risulta sulla carta una delle organizzazioni più democratiche del mondo. A differenza delle Nazioni Unite, dove esiste un consiglio di sicurezza in cui cinque Paesi hanno diritto di veto, o della Banca Mondiale e FMI, dove i Paesi che possiedono più quote hanno diritto a più voti, nella WTO ogni Stato possiede un voto.

Il problema è però di sostanza, non di forma: raramente nel WTO si ricorre ai voti, la parola d’ordine è il consenso.

Nonostante l’abbattimento delle barriere doganali professato dal WTO i paesi poveri del Sud del mondo, nonostante siano membri dell’Organizzazione, non hanno le garanzie necessarie che i loro prodotti per l’esportazione abbiano accesso ai mercati dei paesi ricchi o di quelli emergenti come il Brasile.

Un esempio significativo che rispecchia i controsensi della politiche del WTO è rintracciabile nel libro intitolato “Tutte le bugie del liberocommercio che analizza il commercio di un prodotto come il cacao.

L’Europa applica dei dazi del 9% sull’importazione di fave e di cacao, ma del 30% sulla cioccolata lavorata. Questo significa che i Paesi del Sud possono esportare facilmente in Europa le fave grezze. Alla cioccolata lavorata, invece, prima di arrivare nei mercati europei viene applicato un dazio, ovvero un aumento del prezzo, del 30%. Le tavolette di cioccolato prodotte direttamente in Europa, invece, non subiscono questo incremento di prezzo. Le deboli industrie dei Paesi del Sud devono quindi competere con le grandi imprese europee dovendo fare fronte, oltre alla mancanza di capitali, al maggior costo dei trasporti e di altri fattori, anche ai vincoli economici e tariffari imposti dall’Europa. In pratica, per i Paesi del Sud diventa molto difficile, se non impossibile, riuscire a esportare cioccolata.

Il risultato è che Paesi come il Ghana e la Costa d’Avorio sono leader nella produzione della materia prima, mentre la Germania nella sua lavorazione. Questo processo di maggiorazione delle tariffe e dei dazi all’aumentare del grado di lavorazione di un prodotto è noto come escalation tariffaria. La conseguenze sono che i Paesi del Sud non sviluppano alcuna industria di trasformazione, limitandosi a vendere le materie prime, il cui

prezzo è in costante caduta verticale, alle grandi imprese multinazionali occidentali che le trasformano rivendendole sui mercati di tutto il mondo e guadagnandoci parecchio.

C’è chi ha provato a quantificare con modelli econometrici il costo pagato in termini di ricchezza persa dai paesi più poveri in seguito alle politiche di liberalizzazione commerciale promosse negli ultimi decenni.

I risultati delle analisi econometriche commissionate dalla Ong inglese Christian Aid suggeriscono che in seguito alla liberalizzazioni commerciali degli anni ’80 e ’90 le importazioni siano tendenzialmente cresciute

più velocemente delle esportazioni. Tutto ciò ha generato perdite quantificabili in termini di reddito per alcuni dei paesi più poveri al mondo.

Il rapido aumento delle importazioni ha messo fuori mercato i produttori locali, in seguito all’arrivo significativo di nuovi prodotti, più economici e più adatti alla commercializzazione, nei mercati nazionali. Per i contadini

questo ha significato produrre meno o vendere a prezzi più bassi, perdendo una fetta importante del proprio reddito. Per coloro che producono altre merci l’impatto è stato in alcuni casi la fine del proprio business. Come

dimostrano le analisi dell’UNCTAD (United Nations Conference on Trade and Development) delle Nazioni Unite, in seguito alla liberalizzazione le importazioni di derrate alimentari sono aumentate percentualmente rispetto all’import complessivo, mentre la quota di macchinari importati è diminuita, testimoniando la crisi del settore industriale in termini di produttività e posti di lavoro.

Inoltre, sul fronte dell’export la domanda di prodotti ad esempio che i paesi dell’Africa sub-Sahariana sono in grado di esportare (principalmente materie prime) è cambiata ben poco, con il risultato che ci sono stati margini

ristretti di aumento dell’export, fatta eccezione per il petrolio.

Dopo dieci anni, la Wto sembra avere completamente fallito gli obiettivi esposti nel suo stesso atto costitutivo. Non solo le promesse relative allo sviluppo, alla piena occupazione ed alla tutela ambientale non sono state mantenute, ma la strada intrapresa sembra andare in direzione decisamente opposta. Stiamo assistendo ad una “corsa verso il fondo” a livello globale per quanto riguarda l’ambiente e la tutela dei diritti fondamentali dei lavoratori e dei cittadini.

Gli stati sono chiamati ad eliminare qualsiasi legislazione che possa ostacolare il libero commercio.

In primo luogo sono gli stessi accordi presi in sede Wto a limitare progressivamente lo spazio di manovra politica delle singole nazioni.

In maniera ancora più generale, però, i paesi sono costantemente impegnati in una concorrenza reciproca nel tentativo di accaparrarsi e mantenere il cosiddetto vantaggio comparato sul piano internazionale.

Questo significa una progressiva tendenza al ribasso delle tutele legislative ambientali e sociali, per diminuire i costi di produzione o per attrarre capitali esteri.


Salvatore Tamburro

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