Nel 2012 un avvocato di Atene, Alexios Anagnostakis, raccolse oltre un milione di firme in vari Stati con la sua " iniziativa dei cittadini " (una specie di petizione popolare) chiamata "per un'Europa della solidarietà". Obiettivo: far entrare nella legislazione dell'Unione, tramite un atto giuridico, "il principio dello stato di necessità", in base al quale, "quando l'esistenza finanziaria e politica di uno Stato è minacciata da un rimborso oneroso, il rifiuto di pagamento di tale debito è giustificato".
Per la Commissione europea, che in base alla normativa deve registrare prima la proposta per poi sottoporla al Consiglio dei ministri Ue, la proposta non rientrava tuttavia nelle proprie competenze ed era quindi irricevibile.
L'avvocato greco allora fa ricorso alla Corte di Giustizia dell'Unione Europea.
Il 30 settembre 2015 i giudici del Lussemburgo rigettano il ricorso dell'avv. Anagnostakis ed il volere di oltre un milione di cittadini europei e dichiarano l'iniziativa irricevibile.
L'avvocato greco allora fa ricorso alla Corte di Giustizia dell'Unione Europea.
Il 30 settembre 2015 i giudici del Lussemburgo rigettano il ricorso dell'avv. Anagnostakis ed il volere di oltre un milione di cittadini europei e dichiarano l'iniziativa irricevibile.
Come si legge dalla sentenza (causa T-450/12)
"La Commissione contesta l’argomentazione del ricorrente.
Conformemente all’articolo 122, paragrafo 2, TFUE, qualora uno Stato membro si trovi in difficoltà o sia seriamente minacciato da gravi difficoltà a causa di calamità naturali o di circostanze eccezionali che sfuggono al suo controllo, il Consiglio, su proposta della Commissione, può concedere, a determinate condizioni, un’assistenza finanziaria dell’Unione allo Stato membro interessato.
La giurisprudenza ha già statuito che tale disposizione consentiva all’Unione di concedere, a determinate condizioni, un’assistenza finanziaria specifica a uno Stato membro. Essa non può invece
giustificare l’introduzione legislativa di un meccanismo di estinzione del debito quale auspicato dal
ricorrente, se non altro a motivo del carattere generale e permanente di un siffatto meccanismo (v., in tal senso, sentenza Pringle, cit. supra al punto 41, EU:C:2012:756, punti 65, 104 e 131).
Inoltre, la giurisprudenza ha statuito che l’articolo 122 TFUE ha per oggetto unicamente un’assistenza finanziaria concessa dall’Unione e non dagli Stati membri (sentenza Pringle, cit. supra al punto 41, EU:C:2012:756, punto 118). Orbene, l’adozione del principio dello stato di necessità come concepito dal ricorrente – anche a supporre che, come questi sostiene, un principio siffatto possa rientrare nella nozione di assistenza finanziaria ai sensi di detta disposizione – non può rientrare tra le misure di assistenza concesse dall’Unione in applicazione della disposizione summenzionata, in quanto, in particolare, l’adozione di tale principio non riguarderebbe soltanto il debito di uno Stato membro nei confronti dell’Unione, ma anche i debiti contratti da detto Stato nei confronti di altre persone fisiche o giuridiche, pubbliche o private, nonostante che tale situazione manifestamente non rientri nella disposizione di cui trattasi.
Ne consegue che l’adozione del principio dello stato di necessità, secondo cui uno Stato membro
sarebbe autorizzato a non rimborsare in tutto o in parte il proprio debito, non rientra manifestamente
nell’ambito delle misure di assistenza finanziaria che il Consiglio è legittimato ad adottare sulla base
dell’articolo 122, paragrafo 2, TFUE."
Conformemente all’articolo 122, paragrafo 2, TFUE, qualora uno Stato membro si trovi in difficoltà o sia seriamente minacciato da gravi difficoltà a causa di calamità naturali o di circostanze eccezionali che sfuggono al suo controllo, il Consiglio, su proposta della Commissione, può concedere, a determinate condizioni, un’assistenza finanziaria dell’Unione allo Stato membro interessato.
La giurisprudenza ha già statuito che tale disposizione consentiva all’Unione di concedere, a determinate condizioni, un’assistenza finanziaria specifica a uno Stato membro. Essa non può invece
giustificare l’introduzione legislativa di un meccanismo di estinzione del debito quale auspicato dal
ricorrente, se non altro a motivo del carattere generale e permanente di un siffatto meccanismo (v., in tal senso, sentenza Pringle, cit. supra al punto 41, EU:C:2012:756, punti 65, 104 e 131).
Inoltre, la giurisprudenza ha statuito che l’articolo 122 TFUE ha per oggetto unicamente un’assistenza finanziaria concessa dall’Unione e non dagli Stati membri (sentenza Pringle, cit. supra al punto 41, EU:C:2012:756, punto 118). Orbene, l’adozione del principio dello stato di necessità come concepito dal ricorrente – anche a supporre che, come questi sostiene, un principio siffatto possa rientrare nella nozione di assistenza finanziaria ai sensi di detta disposizione – non può rientrare tra le misure di assistenza concesse dall’Unione in applicazione della disposizione summenzionata, in quanto, in particolare, l’adozione di tale principio non riguarderebbe soltanto il debito di uno Stato membro nei confronti dell’Unione, ma anche i debiti contratti da detto Stato nei confronti di altre persone fisiche o giuridiche, pubbliche o private, nonostante che tale situazione manifestamente non rientri nella disposizione di cui trattasi.
Ne consegue che l’adozione del principio dello stato di necessità, secondo cui uno Stato membro
sarebbe autorizzato a non rimborsare in tutto o in parte il proprio debito, non rientra manifestamente
nell’ambito delle misure di assistenza finanziaria che il Consiglio è legittimato ad adottare sulla base
dell’articolo 122, paragrafo 2, TFUE."
Da questa vicenda si evince, a mio avviso, come la democrazia sia stata calpestata non tenendo conto del volere di milioni di europei, evitando perfino che un'iniziativa popolare venisse discussa dal consiglio dei ministri Ue.
Connessa a questa vicenda vi è un'altra collegata proprio ai titoli di debito greco, una vicenda che vede rappresentata la massima tutela nei confronti delle banche e il danno nei confronti di privati cittadini.
Parlo della sentenza nella causa T-79/13 emessa dalla Corte di Giustizia Ue.
A fronte della crisi finanziaria e del rischio di default della Grecia, la BCE e le banche centrali nazionali (BCN) degli Stati membri dell’Eurozona (Eurosistema), da una parte, e la Grecia, dall’altra, hanno concluso un accordo il 15 febbraio 2012 secondo il quale i titoli del debito greco detenuti dalla BCE e dalle BCN sarebbero stati scambiati contro nuovi titoli aventi valore nominale, tasso d’interesse e date di scadenza e di pagamento degli interessi identici a quelli dei titoli scambiati, ma con numeri di serie e date di emissione diversi.
Contemporaneamente, le autorità greche e il settore privato hanno concordato uno scambio volontario e uno scarto di garanzia del 53,5 % dei titoli detenuti da investitori privati [Private Sector Involvement (PSI)]. L’Eurogruppo contava su una massiccia partecipazione degli investitori privati . A mezzo di una legge del 23 febbraio 2012 , la Grecia ha proceduto a scambiare l’insieme di tali titoli, compresi quelli detenuti da investitori che avevano rifiutato l’offerta di scambio volontario, grazie all’applicazione di una “clausola di azione collettiva” (CAC). I detentori privati hanno allora visto il valore nominale dei titoli scambiati ridursi del 53,5% in relazione a quello dei titoli inizialmente posseduti.
Inoltre, con decisione del 5 marzo 2012 , la BCE ha stabilito, come garanzia per le operazioni creditizie dell’Eurosistema, di subordinare l’utilizzo dei titoli di debito greci che non raggiungono la soglia minima di qualità creditizia alla prestazione, da parte della Grecia a favore delle banche centrali nazionali (BCN), di un rafforzamento creditizio, sotto forma di programma di riacquisto.
Più di 200 detentori privati di titoli greci (essenzialmente cittadini italiani), hanno chiesto al Tribunale dell’Unione Europea di condannare la BCE a risarcire il danno loro causato, per un ammontare di 12 milioni di euro, in particolare dall’accordo di scambio del 15 febbraio 2012 e dalla decisione del 5 marzo 2012 . Essi rimproverano alla BCE di avere violato la buona fede e le legittime aspettative degli investitori privati nonché il principio di certezza giuridica e il principio di eguaglianza di trattamento.
Secondo i ricorrenti, la BCE ha tenuto una pluralità di comportamenti illeciti suscettibili di fondare la responsabilità dell’Unione. Attraverso comunicati stampa e pubbliche dichiarazioni dei presidenti che si sono succeduti (Trichet e Draghi), la BCE si sarebbe opposta, a più riprese, alla ristrutturazione del debito pubblico greco e al default controllato della Grecia.
Con la sua sentenza del 7 ottobre 2015, il Tribunale dichiara che gli investitori privati non possono avvalersi del principio di protezione della buona fede né del principio di certezza giuridica in un ambito come quello della politica monetaria, il cui oggetto comporta un costante adattamento in funzione delle variazioni della situazione economica. Secondo il Tribunale, gli investitori privati avrebbero dovuto conoscere la situazione economica altamente instabile che determinava la fluttuazione dei valori dei titoli greci. Essi non potevano dunque escludere il rischio di una ristrutturazione del debito pubblico greco, tenuto conto delle divergenze di opinione sul punto in seno all’Eurosistema e all’interno degli organismi coinvolti (Commissione, FMI e BCE).
Anche questa ennesima sentenza evidenza "due pesi e due misure": tutelare le banche e danneggiare i cittadini.
Se tra i compiti della Corte di Giustizia europea rientra quello che se un atto dell'UE violi i trattati o i diritti fondamentali, il governo di uno Stato membro, il Consiglio dell'UE, la Commissione europea o, (in taluni casi) il Parlamento europeo, possono chiedere alla Corte di annullarlo. Anche i privati cittadini possono chiedere alla Corte di annullare un atto dell’UE che li riguardi direttamente.
Alla luce delle ultime sentenze sembra, purtroppo, che i giudici della CGUE abbiano grande premura di tutelare gli interessi della finanzia internazionale e non quella dei popoli europei.
Se tra i compiti della Corte di Giustizia europea rientra quello che se un atto dell'UE violi i trattati o i diritti fondamentali, il governo di uno Stato membro, il Consiglio dell'UE, la Commissione europea o, (in taluni casi) il Parlamento europeo, possono chiedere alla Corte di annullarlo. Anche i privati cittadini possono chiedere alla Corte di annullare un atto dell’UE che li riguardi direttamente.
Alla luce delle ultime sentenze sembra, purtroppo, che i giudici della CGUE abbiano grande premura di tutelare gli interessi della finanzia internazionale e non quella dei popoli europei.
Salvatore Tamburro
Dunque, l’(a)morale della sozza favola UE sembra sia la seguente:
RispondiElimina” È inutile proporre petizioni. La volontà dei cittadini conta nulla” .
Ergo.
Lo stato sovrano pare ormai divenuto un vuoto simulacro alla mercé dei plutocrati padroni del denaro, che lo governano tramite le marionette istituzionali.
E la sentenza del finlandese Heikki Kanninen andrebbe interpretata in tal senso, visto il dispregio da lui mostrato verso l’accorato appello di più di un milione di cittadini greci.
Quando finirà l’incubo generato da tale obbrobrio assolutistico comunitario?
Gerarchi come Jean-Claude Juncker sibilerebbero, ghignando ”Mai!”.
Ma io non ci credo.
Credo invece che codesto mostro europeistico si dissolverà, a tempo debito, come neve al sole.
Se fosse ancora vivo, anche il grande Andrzej Łobaczewski confermerebbe ciò.